A Matter of Taste – Doggie bag: chi l’ha visto?

Il 2011 in Europa è stato l’anno della doggie bag, ma in Italia non decolla. Nonostante la crisi, nonostante convenga ai ristoratori. Forse ci serve una Michelle Obama de noartri, ma per fortuna qualcuno nelle nostre china-town fa già scuola …
Di Margo Schachter

Metto via? PoLta a casa? No, non siamo in China Town a New York ma nel ristorante sotto casa mia, in via Padova a Milano ed è evidente che i cinesi in fatto di commercio ci sanno fare. Molto più dei ristoratori italiani. Sono andata a pranzo con i miei genitori, siamo sazi ma ci siamo lasciati trasportare dall’entusiasmo e il tavolo è ancora pieno di tofu e chow-mei. Passa la cameriera sorridente e la sua domanda mi spalanca le porte alla grande domanda: perché in Italia non ci siamo ancora arrivati? Perché la doggie bag non attacca? Mentre passeggio verso casa con in mano il mio prossimo pasto, ben confezionato e già pagato, mi chiedo come sia possibile che noi, quelli della cucina migliore del mondo e del genio italico non si riesca a concepire il take away degli avanzi a fine cena. Why not?

All’ora di cena, in compagnia della mia vaschetta riscaldata al microonde, mi do ad una ricerca sul web: era il lontano 1943 e a San Francisco le Pet Pakits nascono come soluzione antispreco rivolta agli amici a quattro zampe. Poi il diffondersi in tutti gli States verso i Sessanta fino alla normalità – persino la First Lady Michelle Obama è stata paparazzata in compagnia del marito e di un sacchetto all’uscita del ristorante. Nel 2011 la notizia dell’arrivo della doggie bag era stata annunciata come “il nuovo trend” anche in Europa. Come è andata a finire? Maluccio, secondo l’empirica osservazione della realtà.
L’hai pagato, è tuo. Il ragionamento è piuttosto semplice e sopratutto in anni di crisi  potrebbe essere un incentivo ad ordinare qualcosa in più, inclusa una bottiglia di vino, piuttosto che qualcosa di meno. Eppure non me l’ha mai proposta nessuno, eppure a cena fuori ci vado spesso e non sempre riesco a finire tutto quello che ho nel piatto.
Gli Americani di questa “strana usanza” dei ristoranti del vecchio continente non se ne fanno proprio una ragione e affollano i blog di viaggio e di buone maniere: è vero che in Europa non si usa? Ma ci si può portarsi dietro il proprio contenitore? È cattiva educazione? Come si dice in francese? Non si dice.“Niente, c’è una barriera culturale nel nostro Paese. Quando abbiamo lanciato il prodotto Doggy-Bag nel 2011 pensavamo fosse fatta, un sicuro successo, un’idea ecologica, economica e una questione morale. E invece…”  Elisabetta, una delle due creatrici della vaschetta riutilizzabile (brevettata) Doggy-Bag e dipinge uno scenario disarmante di totale ignoranza, e pure di inspiegabile indifferenza. Troppi costi? Un servizio che sembra abbassare il livello del ristorante? Difficile da gestire? Non ci sono ragioni per cui un ristoratore dovrebbe tirarsi indietro ed infatti le mosche bianche effettivamente ci sono.

A Londra e in Svezia sono nati nel 2011 Too Good To Waste e di  Släng Inte Maten (Non buttare via il tuo cibo), in Piemonte un’associazione di eco ristoranti sta provando a diffondere le doggie bag fra i soci. A Milano sempre dal 2011 esiste un progetto benefico, Il Buono Che Avanza, che riunisce una sessantina di ristoranti in Lombardia e resto della penisola che hanno adottato l’uso della doggie bag. “L’idea riscuote sempre successo e, seppur lentamente riceviamo sempre nuove adesioni” spiega Cornelia Pelletta, fondatrice “certo c’è chi rifiuta, ma più il timore di avere un lavoro in più da fare e sacchetti e vaschette da gestire”. A spiccare gli aderenti  il ristorante vegetariano stellato Joia, dello chef Pietro Leemann, il D’O di Davide Oldani e la catena California Bakery.
Forse qualcosa si muove? “Lo avevamo pensato anche noi” spiega Elisabetta “ma a noi è capitato che il proprietario acquisti il kit di base, ne sia entusiasta, ma poi nella realtà i camerieri non propongono l’idea. Ci siamo trovati a richiedere la doggie bag da nostri clienti e di scoprire che non sapevano nemmeno di cosa stavamo parlando”.

In Italia non si conosce proprio questa banale consuetudine, i ristoranti che effettuano anche servizio take-away sono gli unici attrezzati e i primi a fiutare il business – come le trattorie cinesi, ma manca la richiesta, un’azione dal basso o “sembra triste, siamo in Italia, e forse serve un testimonial, una velina….”. O una Michelle Obama de noartri, ad avercela.

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