Cibi cotti o crudi? Una scelta di gusto e qualità

E con il fuoco l’uomo è diventato cuoco: un approfondimento storico sulla cottura del cibo che parte da 500 mila anni fa.
Di Giorgia Fieni

Cuoco e fuoco sono due termini che fanno rima. E, se andiamo ad analizzare la storia dell’uomo, notiamo che, oltre all’assonanza linguistica, c’è anche un preciso riferimento temporale. È infatti solo con la scoperta del fuoco (circa 500 mila anni fa) che l’alimentazione dell’uomo è cambiata completamente: prima si nutriva di bacche, arbusti e piccoli animaletti, dopo ha iniziato a trattare queste materie prime per trasformarle in qualcos’altro. E questo nuovo approccio gli ha permesso di consumare bolliti, stufati, arrosto ecc., vale a dare gli ha dato la varietà a tavola. E con la varietà sono nati il gusto e la conseguente scelta dei sapori; perciò, in una parola, è diventato cuoco.

Da allora, tutta la gastronomia si è basata sulla dicotomia crudo-cotto. Per migliorare ancora la sua alimentazione, intorno al 3000 a.C.  l’uomo ha infatti inventato il primo forno e nel 600 a.C. la frittura (pure se in realtà si trattava di un semplice abbrustolimento nell’olio). Le popolazioni di origine celtica (note per la loro preferenza rivolta alle carni piuttosto che ai prodotti vegetali) si distinguevano proprio per il tipo di cottura: la civiltà di Hallstat cucinava il manzo bollito con la verdura cotta o i crauti con le costine di maiale e le salsicce; i Celtiberi cuocevano insieme verdure, carni e legumi; i Lusitani preferivano le zuppe di vegetali e carne conservata; i Boi, infine, preparavano grandi quantitativi di arrosto. Queste abitudini, però, in realtà non sono affatto cambiate, perché il nord Europa serve ancora in tavola Gulash, Choucroute, Olla podrida e Cozido, mentre nel nord Italia l’impronta celtica è rimasta nello stinco di maiale, nel brasato al barolo piemontese, nella carbonade valdostana, nella cassoeula milanese, nella cima ripiena ligure ed in tantissime altre pietanze.

Almeno fino ad arrivare ai giorni nostri, nei quali i giapponesi ci stanno convincendo a riassaporare ed apprezzare il cibo crudo, come la carne, ma soprattutto il pesce. Il suo sapore è indubbiamente ottimo, ma solo se la qualità della materia prima e l’igiene nel suo trattamento sono ai massimi livelli, altrimenti si rischia di incorrere in problemi sanitari piuttosto gravi, in quanto il cibo crudo è portatore di microrganismi pericolosi, tossine o virus.

La preferenza per i cibi crudi è però anche associabile in qualche modo al vegetarismo. Quelli che lo praticano professano la naturalità dell’alimento e il suo consumo proprio come faceva l’uomo primitivo. La scelta è senza dubbio nobile, ma occorre anche in questo caso fare attenzione a batteri e tossine: alcuni pericoli possono infatti annidarsi pure in uova e verdure e sopravvivere, almeno finché non subiscono un trattamento alle alte temperature.

Al di là però dell’aspetto puramente igienico, anche il cibo crudo segue i suoi rituali: il taglio, per esempio, richiede conoscenza della materia prima e della particolarità delle lame, oltreché abilità manuale, in modo che ogni sfilettata porti allo scoprirsi di nuovi sapori. Il cibo crudo rimanda inoltre ad un legame profondo con la naturalità: tutti noi conosciamo ed apprezziamo la bontà dei frutti appena tolti dalla pianta, l’insalata di mare consumata sulla spiaggia col pesce appena pescato e spruzzata solo da una goccia di limone e l’inconfondibile sapore di una fetta di prosciutto o di salame insaporite solo da qualche spezia e da mesi di stagionatura.

Però, l’esperienza culinaria comune ci suggerisce anche quanta acquolina può riservarci la carne grigliata ed il pesce al forno, ma pure una semplice pasta al sugo di pomodoro. Il cibo cotto è capace di solleticare il palato tanto quello crudo, sottoponendogli una gamma di sapori determinati dal tempo di trattamento del calore.

Mantenere la qualità sia nel gusto che nell’igiene delle materie prime rimane dunque l’obiettivo principale del cuoco, che usi o meno il fuoco…

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