In occasione di Schio Design Festival abbiamo incontrato Corrado Fasolato, ex bistellato del Met di Venezia, ora avviato in un’avventura controcorrente: quella del suo Spinechile Resort, nella zona del Tretto in provincia di Vicenza. Lo chef non si è risparmiato e ci ha dedicato molto tempo. Dalle sue parole emergono la determinazione e la bontà del suo progetto, oltre ad alcuni temi che dovrebbero interessare ogni amante del cibo.
Di Marco Dall’Igna e Andrea Toniolo

Da Chef del Met di Venezia, con due stelle Michelin, l’idea di ricominciare con un progetto proprio,
nella zona del Tretto, in provincia di Vicenza. In meno di un anno è arrivata la prima stella per il Resort Spinechile, la scelta ha quindi pagato, ma ha mai temuto il rischio di aprire in un’area così isolata? Da cosa è nato questo bisogno di tornare in collina?
Certo, ho pensato al rischio e ogni giorno ci penso ancora, ogni giorno mi metto in discussione, con i clienti, con mia moglie, coi miei figli, perché la bellezza del progetto è il fatto che dietro c’è una famiglia al completo, la quale mira a dare l’ospitalità e a far si che il cliente stia bene.
Sarò sincero: fin dal primo giorno ho iniziato questo progetto contro tutti, perché comunque nessuno ci credeva. Vista la posizione molti pronosticarono un fallimento, però a noi quel posto trasmetteva qualcosa di magico, ogni volta che ci andavamo, ci trasmetteva sensazioni uniche e particolari.
La cosa gratificante è che siamo riusciti a trasferire quelle che erano le nostre emozioni al cliente. Il cliente ha trovato in quel luogo quelle sensazioni che trasmetteva a noi, a testimoniarlo c’è il fatto che all’inizio, senza un sito, senza una comunicazione, il locale ha cominciato a funzionare grazie al passaparola di chi veniva nostro ospite.
La scommessa non si può dire vinta, attenzione, ma è un ottimo inizio. Nella ristorazione non bisogna mai sentirsi arrivati.
Poi, il fatto di tornare in collina c’è stato perché io amo l’isolamento, amo andare in mezzo al bosco e mettermi lì a riflettere. A me il bosco, la natura, gli uccelli, gli animali in genere danno tanto, mi danno una gioia immensa. Quando sono stato a Milano per la premiazione Michelin sentivo il bisogno di rientrare in fretta: mi sentivo soffocare. Io amo gli spazi aperti, con tutte le problematiche che possono dare, ma se uno ama una cosa il problema non è più un problema, diventa una gioia: la neve, la caduta di un albero, sono sicuramente disagi, ma uno che ama la natura deve accettarli. E io la amo immensamente.

Il passaggio da un locale affermato, in una città tra le più visitate al mondo, ad una nuova esperienza in un luogo isolato e poco conosciuto, come ha cambiato la sua cucina? Può presentare gli stessi piatti di ricerca che presentava al Met?
Io vengo via da un’esperienza bellissima che è quella veneziana, lì ho adottato certe misure presenti nella cucina che sto adottando anche ora. Qui, però, non sono partito con la mia cucina, bensì con un tipo di cucina che fosse mezza mia, ma mezza anche comprensibile al cliente a cui mi rivolgo. Ho aperto in un luogo in cui nessuno mi conosceva, tempestato di buoni ristoranti, ma con una cucina molto tradizionale. Quindi, per non tagliarmi le gambe da solo, ho cercato di mediare, di andare incontro al cliente, che, a mio avviso, va in qualche modo educato, bisogna fargli conoscere il cibo. Questo è un passaggio che sto facendo, non sono ancora arrivato al livello della mia cucina al Met, ma piano piano sto inserendo elementi di quel genere. Il mio obbiettivo è quello di andare oltre la cucina che proponevo al Met. Ora ad esempio sto facendo una ricerca sull’uso dei legni come profumi e resine, e delle terre come infusi. Tutto ciò serve a trasmettere il territorio. Tutti mi chiedono se ho l’orto, sì, l’orto per me è il bosco. Il bosco è un orto pazzesco, ha delle cose talmente naturali, talmente buone, ma bisogna trovare il modo di sfruttarle, fare ricerca, perchè nel passato si usava tutto! Nel passato, non lo si crede, ma erano molto creativi, avevano pochi strumenti e si adattavano … Poi c’è stato un momento in cui è andato perduto tutto, ora bisogna recuperare, in forma moderna, ma bisogna assolutamente recuperare.
Qui sarà importante, sicuramente, trasmettere il territorio tramite i prodotti stessi, qui abbiamo prodotti poveri, ma molto importanti e che vanno valorizzati. Altrimenti finiamo per omologarci. Ora, ad esempio, tutti usano la fassona … ma allora i produttori locali cosa devono fare? Chiudere?
Bisogna invece sviluppare i prodotti della zona, sta poi nella mia tecnica esaltarne le caratteristiche, valorizzarli, quello è il mio lavoro. Magari non arriverò mai al livello della fassona piemontese, ma devo cercare di utilizzare queste materie prime locali al meglio, in modo da incentivare il produttore della zona.

Il design e la cucina hanno in comune il fatto di dare una grande importanza all’estetica.
Per lei quanto conta la parte visiva? C’è una progettazione dell’impiattamento e quanto tempo le dedica?
Almeno quanto ne dedico all’ideazione del piatto. Tu crei un piatto, te lo immagini in una determinata maniera, lo vai ad impiattare e poi, man mano che lo impiatti, dici no, qui devo cambiare, e magari ti concentri sulla disposizione degli elementi, o magari sulla ricerca del piatto adatto. Tante volte capita di non avere il piatto adatto per quello che hai concepito: per questo motivo si comincia a far studiare piatti su misura per la tua creazione. Capita di pensare a delle cose che non puoi realizzare, quindi vanno creati gli strumenti adatti a realizzarla.

