Mattea ci porta alla scoperta di alcuni piatti tipici che grazie alla Denominazione Comunale (DE.CO) hanno certificato la loro identità e le loro origini.
Di Mattea Guantieri

La prima volta che ne ho sentito parlare è stato per caso. Mi trovavo in Toscana, a Sant’Anna di Stazzema, e come al solito mi sono fatta rapire dal racconto di una di quelle anziane che non vede anima viva per mesi e appena capisce che c’è ancora vita nel mondo, ti prende un braccio, ti accoglie in casa sua, e ti offre polenta fritta, salame e un tavolo imbandito di verdure fresche, tra cui balzano all’occhio carote assolutamente anomale rispetto a quelle che conoscevo. Il Pastinocello selvatico, una carota spontanea dal retrogusto di nocciola e dal colore vagamente marroncino l’ho scoperto così, chiacchierando amabilmente con questa donna che per un paio d’ore mi ha ammaliata con vaghi e stropicciati ricordi dal sapore contadino.
Coltivata fino alla seconda guerra mondiale, questa carota ha rischiato di scomparire fino agli anni Novanta quando un appassionato è ripartito dalla selezione di alcuni semi. E oggi sono quattro i produttori per un totale di circa 3/4 quintali all’anno, destinati all’autoconsumo. Un patrimonio gastronomico che si sarebbe perso, come la memoria di quell’anziana donna, se non fosse per l’ottenimento della Denominazione Comunale, che ne sostiene dal 2007 la tipicità. Il Pastinocello di Stazzema, il raviolo nostrano di Covo in Lombardia, che risale alla fine dell’Ottocento, la pearà di Illasi, la salsa veronese che condisce un buon bollito (e sulla cui ricetta riportata come De.Co a dir la verità mia nonna avrebbe più di qualche appunto), e ancora la Torta amara della Vallera di Caraglio, tipica di una minuscola frazione della provincia di Cuneo, o Lu Serpe di Falerone, un dolce dalla particolare forma a serpente, ricoperto di glassa e cioccolato, ripieno di mandorle, pinoli e cacao, che ha una storia vecchia di 400 anni, nella quale ancora una volta c’entrano le Clarisse del luogo, e su su fino alla Seupa della Val d’Aosta, piatto povero a base di fontina brodo e burro amalgamati e pane raffermo, passando per la Nespola di Molinella, in Emilia Romagna: non marchi, non tutele, ma come diceva Luigi Veronelli, che ha dato inizio all’ispirazione per la difesa dei “piccoli” nel 1959, “attestazioni che legano, in maniera anagrafica, la derivazione di un prodotto al luogo storico dove è nato”. Per capire come funziona una denominazione, e come si differenzia da una Dop o una Igp, bisogna sapere che un comune può deliberare una sua denominazione sia per un prodotto tipico che per una sua produzione artigianale, alimentare e non, ma è anche possibile che una De.Co. diventi una festa, una ricetta o un terreno. È sufficiente una delibera comunale, insomma, perché una De.Co. sia approvata. E così, si scopre che comuni come Montemale, un territorio vocato alla crescita e raccolta di una particolare specie di tartufo nero sta operando da tempo per tutelare le stesse tartufaie naturali, censendole e cintandole.

Certo, non basta come ben sappiamo, un marchio per garantire la qualità di un piatto o di un prodotto. Ma, almeno, la carta di identità ne certifica l’appartenenza, dà l’idea di una tradizione, di un luogo, di un passato che si fa largo nel presente. In vista dell’ Expo 2015, anche Milano ha raddoppiato i piatti con la carta d’identità De.Co: dopo risotto giallo, ossobuco, cassoeula, michetta e panettone, arrivano minestrone, costoletta alla milanese, mondeghili (polpette a disco, differenti dalle classiche rotonde), rostin negàa (nodini di vitello «annegati») e la barbajada (bevanda a base di cioccolato). Perché, come sosteneva sempre Veronelli “chiunque rinunci ad una scelta ragionata, giorno via giorno, luogo via luogo, dei propri cibi e delle proprie bevande, condizionato da ciò che viene imposto dai mezzi di comunicazione di massa, rinuncia alla propria libertà”.