“E birra sia” si distrae col gin. Glielo concediamo? Noi diciamo di sì! Enjoy!
Di Rossella Di Bidino

Ma il gin non è birra?
Salvarsi in corner è sempre importante nella vita. E stavolta me la cavo più facilmente del previsto.
Il Pimm’s Cup No. 1 finisce in “E birra sia” perché è a base di gin ed il gin è un distillato che parte dall’orzo o dal frumento, quindi qualcosa a che vedere con la birra ce l’ha. Dopotutto un mirabile capitolo del giro per pub dell’Inghilterra (e oltre) di Ian Marchant era dedicato al signor gin.
La categoria esistenziale del gin nacque nel Seicento all’Università di Leida in Belgio come rimedio medico alla febbre che colpiva gli europei quando raggiungevano le Indie Orientali. Questa particolare medicina piacque molto da arrivare fino nel Regno Unito. Le solite statistiche senz’anima riescono però stavolta a dare un’idea del successo popolare del gin.
Nel 1730 circa 10.000 galloni di gin venivano distillati nella sola Londra e distribuiti da 7.000 punti vendita, pub o altro, nel corso di un solo anno. Il londinese medio si ingurgitava, immagino per ciò felice, 14 galloni all’anno di gin. Oltre 60 litri !
Fu usato da Guglielmo III di Orange, nella seconda metà del Seicento (1688), come motivo per bloccare le importazioni di distillati stranieri, primo tra tutti il troppo francese cognac.
Lo Jenever, così chiamano a tutt’oggi il gin in Olanda, è ottenuto dalla distillazione di un fermentato a base di frumento od orzo e prevede l’uso di bacche di ginepro, semi di coriandolo ed altre erbe aromatiche. Il risultato è una bevanda incolore con una decisa gradazione alcolica. Si tratta di ben 43°-45°.
Uno di questi gin è il Pimm’s del titolo. Quando sono stata a Londra ho scoperto che, quello che per me era una simil rarità, là, nell’ombelico del mondo, era fin troppo trendy. L’ho visto ovunque.
Sarà perché è nato nella City londinese?
Domande storiche a parte, James Pimm nel suo Oyster Bar in Poultry Street nel 1823 lanciò la Pimm’s Cup No.1. All’inizio, infatt,i era un cocktail, solo dopo diventerà un prodotto commerciale. Oltre la solita ricetta segreta di erbe, la ricetta originale prevedeva anche del chinino.
Chinino, perché non saperne un po’ di più su di lui, mi son detta. Ed ora posso spifferarti che si tratta di una sostanza, tal alcaloide naturale, avente proprietà antipiretiche, antimalariche e analgesiche, il che riporta indietro alle origini quasi mediche del gin. Si tratta di una sostanza che viene estratta dalla corteccia dell’albero della china. Il chinino giunse in Europa grazie alla scoperta delle Indie Orientali, che non sono altro che l’America. Infatti, era usato dagli indigeni dell’America centrale per curare la febbre e fu per questo introdotto da noi dal gesuita Bernabé Cobo (1582-1657), secondo la storiografia ufficiale, o grazie alla contessa Ana de Osorio Chinchón, secondo la leggenda.
Tornando al nostro bicchiere di Pimm’s, ne esistono vari numeri.
Questo è il No.1, perchè fu servito da James Pimm in piccoli boccali, tali tankard in inglese, che erano conosciuti come No. 1 Cup. Ad oggi è una bevanda soprattutto estiva per gli inglesi.
Io da italiana mi sono sentita in obbligo di riassaggiare la Pimm’s cup No.1 dove fette di arancia, limone, mela e cetriolo ballano nel Pimm’s allungato con limonata. A suggellare l’unione della menta. A volte persino compaiono le fragole, ma qui a Roma non le ho mai trovate.
Ammesso il debole per il Pimm’s, mi tocca però riportare che non sempre la Pimm’s Cup No. 1 mi soddisfa. Non è il gin ad avere favori alterni presso di me, ma la modalità di preparazione. A volte troppo gelido, a volte poco cetriolo ed altre non mischiato.
Signori barman un semplice consiglio, lasciate alla Pimm’s Cup No. 1 la possibilità di sprigionare tutta la sua energia. La fretta è cattiva consigliera per chi pregusta la sua Cup No. 1 dal primo mattino di un duro giorno di lavoro 🙂