GROM: un’amicizia, qualche gelato e molti fiori

Ambra Meda ha intervistato Guido Martinetti, uno dei due fondatore di Grom, durante la presentazione del loro libro in occasione del Firenze Gelato Festival. Si è parlato della loro storia imprenditoriale e di gelato artigianale.
Di Ambra Meda

La storia ha dell’incredibile: nell’agosto 2002, un enologo ventottenne con la passione per i sapori antichi legge un articolo in cui Carlo Petrini, presidente dello Slow Food, lancia l’allarme sul declino del gelato artigianale italiano. Il rammarico di Petrini, “nessuno fa più il gelato come una volta”, viene colto come una sfida dal giovane Guido Martinetti, che con la sua storica Punto sfreccia dall’amico d’infanzia, ora manager, Federico Grom, per condividere un’idea che non smette di martellargli nella testa. “Perché non ci mettiamo a fare il gelato come una volta? Sarà il più buono del mondo!”. Quella che all’inizio pare un’utopia si trasforma in realtà: a meno di un anno dal sua articolo-denuncia, nel luglio 2003, Petrini riprende in mano la penna e annuncia sulla “Stampa” che, a Torino in piazza Paleocapa, ha da poco aperto una gelateria che produce “il più buon gelato al pistacchio della vostra vita”.

Grom Libro

Quest’avventura è raccontata dai due protagonisti nel libro “GROM. Storia di un’amicizia, qualche gelato e molti fiori”, che narra i successi ottenuti a partire dal primo negozietto di 25 metri quadrati a Torino fino agli ultimi punti vendita inaugurati a Malibu, New York, Osaka, Parigi e Tokyo. Dall’Italia al mondo l’obiettivo è uno solo: selezionare le migliori materie prime, rinunciare agli additivi e usare solo la frutta biologica coltivata nell’azienda agricola di proprietà del marchio, al fine di creare un gelato di altissima qualità.

Ieri pomeriggio, in occasione della III edizione del Firenze Gelato Festival, Guido Martinetti ha presentato il volume “GROM. Storia di un’amicizia, qualche gelato e molti fiori” (Bompiani) alla Libreria Edison, in compagnia del sindaco di Firenze, Matteo Renzi, e di Gabriele Poli, ideatore del festival.

Al termine della presentazione, e dopo aver ordinato “un caffè il più caldo possibile”, Guido si trattiene a scambiare quattro chiacchiere con noi.

Guido Martinetti GROM

Il successo della vostra impresa costituisce un esempio positivo per i giovani d’oggi. Credete che nell’Italia della crisi sarebbe possibile dar vita a un’impresa come Grom?

Sì, nonostante tutto sì. Sarebbe più difficile, senz’altro, ma non impossibile. Non è che le banche oggi non effettuano più prestiti, ma lo fanno in modo più conservativo e a un prezzo più elevato. Con un buon progetto, un po’ di fortuna e tanta voglia di fare nulla è impossibile e la logica del libro è proprio questa: si può ancora sognare, anche ai tempi della crisi.

Dall’articolo di Petrini dell’Agosto 2002, in cui si lamentava l’artificialità del nostro gelato artigianale, è cambiato qualcosa nel mondo del gelato italiano?   

Totalmente. Si è evoluto molto più negli ultimi dieci anni che nei precedenti quaranta. Nel suo piccolo, una situazione virtuosa come quella di Grom ha cambiato le carte in tavola, perché tutti la studiano, la guardano e cercano di migliorare. Non lo dico con arroganza, ma credo che con la nostra impresa abbiamo fatto da traino al miglioramento del gelato artigianale.

Da cosa deriva la vostra scelta di miscelare tutti gli ingredienti in un unico luogo di produzione e mandare la miscela liquida a mantecare nei punti vendita? 

I fattori sono vari: il desiderio di proteggere le nostre ricette; la possibilità di centralizzare gli acquisti, ma anche la volontà di evitare gli sbagli. In tutte le gelaterie c’e’ un potenziale di errore molto elevato: se devo aggiungere la granella di cioccolato alla stracciatella, preferisco pesarla io, se per caso il negozio sbagliasse la pesata anche solo del 2% avrei già rovinato tutto il prodotto.

Guido, nel libro scrivi: “la creatività in cucina non mi ha mai particolarmente appassionato, mi diverte ma non mi emoziona. Mi entusiasmano invece la storia dell’agricoltura e della cucina”. Cosa ne pensi di quelle gelaterie che puntano tutto sullo sperimentalismo e gli accostamenti bizzarri?

Credo che qualche volta, in gastronomia, lo sperimentalismo possa anche avere un senso. Mi è capitato, ad esempio, di assaggiare un gelato all’acciuga di Moreno Cedroni che era fantastico. In gelateria però preferisco rimanere coerente ai gusti della nostra tradizione pasticcera.

Parlando del vino, ricordi quanto sia importante tenere presente “come hai mangiato, quanto sei riposato, quanto contino il profumo e la temperatura dell’ambiente”. Racconti come l’atmosfera giochi un ruolo decisivo nella degustazione, che è “diversa quando avviene per motivi tecnici rispetto a quando costituisce un’occasione conviviale di gioia e serenità”. Lo stesso criterio vale anche per il gelato?

Assolutamente sì. Tutto è relativo al contesto: sia agli aspetti emotivi che agli input che arrivano dal’esterno. Se ascolto musica, a prescindere dall’impianto acustico, ne avrò una percezione diversa a seconda che mi trovi in un auditorium o in un negozio di dischi; a seconda che sia stanco o riposato… Anche la degustazione del gelato, come ogni altra percezione sensoriale, è relativa al momento che stiamo vivendo sotto l’aspetto sia emozionale che ambientale.

Nel libro scrivi che “la capacita di degustare è fondamentale nell’industria alimentare”. Quali sono i dettagli sui quali un “degustatore” di gelato deve concentrare l’attenzione?

Per me la degustazione più efficiente e quella in cui si mettono più gelati su un tavolo davanti a un buon numero di perone. Quello che finisce prima è, in sintesi assoluta, il più buono. Poi, gli aspetti della degustazione visti gusto per gusto devono invece toccare le caratteristiche dei singoli ingredienti. Quando assaggio un cioccolato, ad esempio, sto molto attento alla sua tannicità, all’acidità e all’amaro. Se degusto un fiordilatte, sto attento alla sua parte aromatica, che è molto delicata. Assaporo l’aroma “grasso di vacca” in cui si racchiude il gusto, il lattosio, che dà la dolcezza, e poi la sua acidità, che mi dice come è stato trattato quel latte e come ha subito i processi di pastorizzazione.

Molto spesso, i gelatai sostengono che la degustazione inizia con la vista e che il colpo d’occhio è parte fondamentale di un’esperienza che deve saper coinvolgere tutti sensi. Il vostro impegno a conservare il gelato nelle carapine “come si faceva una volta”, sembra lanciare un messaggio opposto: un gelato senza fronzoli inteso come un prodotto delicato, da conservare con cura.

Certo, grazie alla conservazione del prodotto nelle carapine, è possibile produrre  un gelato senza additivi chimici, senza quelle sostanze “di abbellimento” che servono a renderlo accattivante nel suo aspetto esteriore. Soltanto dieci anni fa, nel mondo della gelateria, era inconcepibile produrre un pistacchio senza coloranti (che nel migliore dei casi naturali erano a base naturale, come la clorofilla da spinaci). Non è stupido aggiungere qualcosa di artificiale a un alimento già di per sé perfetto? La nostra cultura, almeno nel campo dell’alimentazione, dovrebbe essere più attratta dal gusto che dall’apparenza; e la scelta delle carapine punta a far apprezzare l’essere delle cose piuttosto che la loro esteriorità.

Che cos’e’ il gelato per Guido Martinetti?

Un’occasione di piccola felicità.

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