IDfood continua il suo percorso alla scoperta delle identità degli Chef con l’intervista a Misha Sukyas. Chef giramondo, ma, privo di passaporto…
intervista: Gaia Bortolussi, progetto e foto: Marco Varoli
Com’è cominciata la tua avventura in cucina?
È iniziata, più o meno, quattordici anni fa girovagando per il Mondo. Inizialmente, è stata una necessità lavorare in cucina, poi è diventata una vera passione. Ho scoperto un mondo che non avevo mai considerato, del quale ho voluto assolutamente fare parte. Questo lavoro mi ha dato la possibilità di viaggiare, di esplorare luoghi nuovi. Non da turista, o come spettatore: ho potuto vivere i luoghi in modo intrinseco, reale, con la gente del posto e con le persone con cui ho lavorato. In qualsiasi parte del mondo lavori, le persone con cui lo fai diventano il tuo nucleo familiare, una brigata. E proprio questo vivere i Paesi dove sono stato come se realmente abitassi lì da sempre, con tutto ciò che comporta, mi ha dato la spinta più grande per la mia carriera. Ora, dopo dodici anni di esperienza fuori dall’Italia, sono tornato a Milano con un bagaglio culturale arricchito. L’avventura con L’Alchimista mi porta a scoprire che cosa porterà produrre oggi avanguardia in Italia.
Quindi si può dire che fai parte, a modo tuo, di una nuova stirpe di Chef che puntano a fare avanguardia?
Sì, credo di farne parte. Se devo, mi identifico certamente di più con una corrente di Chef che fanno avanguardia. Infatti, in Italia l’avanguardia sta nascendo, anzi, esiste già ed è forte. È un processo in evoluzione, e credo che prima o poi arriveremo ad uno status di avanguardia totale. Cito un mio collega, e grande maestro, Massimo Bottura dicendo che siamo tutti, troppo, colpevoli della nostra evoluzione per voler tornare alle padelle delle nostre nonne… Ci tengo a sottolineare, però, che l’innovazione non può esistere senza delle forti basi classiche. La famosa formula per la quale se non hai delle fondamenta stabili il palazzo crolla, vale allo stesso modo in cucina.

Come affronti l’aspetto del tuo lavoro che ti pone continuamente di fronte a dei giudizi?
Si dice che tra le persone più felici del mondo ci siano quelle che hanno un lavoro manuale, e io ne faccio parte. Fondamentalmente, il rapporto di giudizio che si ha ogni volta che si mette il cibo nel piatto è una conferma o una disdetta. Però lo considero anche come un riconoscimento immediato, io so se ho fatto una cosa fatta bene o fatta male, e questo mi da il drive per andare avanti. Ci sono persone che vivono un’intera vita cercando di stare lontani dal giudizio del prossimo, noi Chef lo affrontiamo a “petto aperto” molte volte al giorno. Io la trovo una cosa fantastica.
Che cosa vuoi comunicare con la tua cucina?
Questo è un’aspetto sempre molto legato al mio stato d’animo, o a quello che il menù, e il piatto in sé, vuole comunicare. Io mi definisco un tramite: è il piatto che parla, io gli do semplicemente la possibilità di parola. Mi piace vedere la cucina come un linguaggio, da Paese a Paese si imparano sempre parole nuove per potersi esprimere, quindi la comunicazione cambia continuamente…
Ci sono dei tuoi piatti a cui sei particolarmente legato?
No, non ho mai attaccato il cordone ombelicale ai miei piatti. È una questione legata a come sono io: ciò che mi piace oggi spesso non mi piace più domani. Io evolvo, o regredisco, e di conseguenza così è la mia cucina.
Parlaci del piatto che hai preparato…
Sono dei filetti di tonno in marinatura di wasabi e coriandolo, adagiati su una terrina di polipo al limone bruciato, unico ingrediente che ho cotto, perché per il resto ho lavorato con elementi crudi o in osmosi. Troviamo, infatti, la barbabietola in un’osmosi orientale, la carota ghiaccio ripiena di tartare di scampi con salsa di soia e una salsa si cioccolato bianco e wasabi. Io la definirei una preparazione semplice, in quanto, non è la quantità di ingredienti usati, o le tecniche, che rendono un piatto più o meno complicato, ma è l’effetto al palato che lo definisce.
In che modo questa preparazione ti identifica?
Chi guarda , o mangia, questo piatto probabilmente potrebbe pensare ad una cucina fusion, ma non lo è. La cucina fusion infondo non esiste, si tratta piuttosto di andare a guardare cosa accade nel mondo, di assimilare altre culture culinarie e di farle proprie riproponendole in modo assolutamente personale. Non ci si può limitare a definire un piatto come una mescolanza di ricette e sapori diversi, per me è molto di più. È un’espressione di ciò che ho assimilato, conosciuto e assaporato nel Mondo. Questo piatto mi identifica perché è privo di passaporto. Oggigiorno viviamo in un mondo fatto di nomenclature, tutto dev’essere precisamente definito: tu fai molecolare, lui fa fusion, l’altro orientale… Ma in realtà sono solo parole, dietro non c’è una vera distinzione. Io credo siano solo stereotipi usati per comodità. Non voglio essere etichettato per quello che faccio, non per andare controcorrente, semplicemente perché io oggi sono questo e domani sarò altro. Quello che faccio non è dettato da una tendenza culinaria, ma da quello che sono io. È una continua ricerca, e come tale, non ha né limiti né frontiere.

Sottobosco di tonno
Un piatto privo di passaporto. Espressione di ciò che lo Chef Misha Sukyas ha assimilato, conosciuto e assaporato nel Mondo. Vede la cucina come un linguaggio: da Paese a Paese impara sempre parole nuove per potersi esprimere. La sua arte non è dettata dalle tendenze culinarie, ma, da com’è lui. Avanguardia, per ora, è la sua parola chiave. Il suo Sottobosco di tonno è una composizione di filetti di tonno in marinatura di wasabi e coriandolo, adagiati su una terrina di polipo al limone bruciato. Tutti gli elementi usati sono crudi o in osmosi, l’unico ingrediente cotto è il polipo. La differenza tra preparazioni semplici o complesse per lo Chef Misha non si definisce grazie alla quantità di ingredienti usati, o alle tecniche, ma dall’effetto che si compie al palato.