Il fish and chips, ovvero il pane della British working class

“Il fish and chips, più che del suo popolo o di un movimento migratorio, è figlio del  suo tempo. Per la precisione, quello della rivoluzione industriale, quando la giornata viene scandita da ritmi sempre più frenetici e sempre meno permissivi.” Francesca nel suo primo post per Honest Cooking: perché il cibo è cultura, rito e mito. 
Di Francesca Mastrovito

Siamo quello che mangiamo.

Concetto abbastanza chiaro, vivido e, ultimamente, ridondante. Se mai dovessimo dimenticarcene, ci sarà sempre il nostro amico gastro-fighetto che ce lo ricorderà su Facebook postando la citazione in un font vintage a sfondo sfocato. Preferibilmente seguito dagli hashtag #food #foodie #foodlover. Senza fermarsi  banalmente al riferimento più fisico e immediato del concetto -vale a dire il brufoletto che spunta in piena fronte dopo qualche cucchiaiata di Nutella di troppo, c’è da riconoscere il fatto che spieghi nella maniera più esaustiva possibile il legame tra uomo (l’individuo, la famiglia, la comunità, l’etnia) e terra, dipanatosi nel bisogno primario forse più importante per la nostra sussistenza, cioè mangiare. Ma essendo l’uomo un essere pensante, che si sfama non solo per necessità, ma anche per appetito, per voglia, per “sfizio”, che riesce a concettualizzare il cibo, possiamo dedurre che sia vero anche il contrario: mangiamo quello che siamo. Non una contraddizione, non cannibalismo, ma un’ovvia conseguenza. Più che al cane che si morde la coda, dovremmo pensare al concludersi –e allo stesso tempo, al rigenerarsi- di un ciclo. L’ingrediente determinante, in questo senso, è la cultura: quell’insieme di tradizioni, miti, riti e immagini non è altro che il valore aggiunto in grado di definirci non solo come individui umani, differenti dal resto del mondo animale, ma anche come comunità, come gruppo.

Perché, insomma, in Trentino si mangia polenta e in Puglia purè di fave? Perché in Scandinavia affumicano l’impossibile e in Islanda fanno marcire sotto terra la carne di squalo –per poi, ebbene si, mangiarla? Perché la cucina indiana è conosciuta (e spesso stereotipata) per i piatti speziati? La risposta è scritta non solo nella nostra storia, ma in tutto quell’insieme che, anche assieme alla storia, la religione, i flussi migratori, costituisce il nostro DNA culturale.

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Se per esempio dovesse balzarvi subito in mente un cartoccio fumante di fish & chips mentre si parla di Inghilterra, non dovete preoccuparvi per la vostra sanità mentale. È più che normale (per non dire naturale); ma attenzione, non dovreste nemmeno attribuire questo sillogismo al caso –o alla vostra voglia latente di frittura. Il fish & chips, più che del suo popolo o di un movimento migratorio, è figlio del  suo tempo. Per la precisione, quello della rivoluzione industriale, quando la giornata viene scandita da ritmi sempre più frenetici e sempre meno permissivi. La pausa pranzo, o comunque l’atto stesso del nutrirsi, è considerato per niente produttivo, anzi, del tutto improduttivo. Va semplicemente contro la nuova logica dell’efficienza. Se sommiamo quindi tempi ridotti, pasti frugali, magari consumati in piedi, e tasche di taglie piuttosto ridotte, cosa otteniamo? Facile. Limpido. Lapalissiano. Street food.

Sull’economia delle patate, non sembrano esserci dubbi. Ma il pesce? Cosa induce i banchetti agli angoli della strada a preferirlo alla carne, agli scarti tanto utilizzati nei famosi pasticci britannici? Possiamo rispondere ancora una volta con: è il progresso, baby. A metà e fine Ottocento (da notare che il primo rivenditore ufficiale di fish & chips pare comparire nel 1860) assistiamo a due fenomeni paralleli: il primo, quello sicuramente più noto, è lo sviluppo galoppante della rete ferroviaria, che rende accessibile quello che fino a poco tempo prima magari non lo era; secondo, la fauna ittica dei mari del Nord viene letteralmente saccheggiata grazie alla nuova tecnica di pesca, definita a strascico. Più pesce per tutti, quindi. Senza contare, d’altronde, che non stiamo certamente parlando di salmone, tonno o crostacei intoccabili come l’aragosta.

Concluse le dissertazioni sugli ingredienti? Non ancora. Quella fragrante, oleosa, dorata crosta che avvolge completamente il pesce del nostro cartoccio, è anch’essa in qualche modo influenzata da una tendenza particolarmente…inglese. Senza andare troppo per stereotipi, sembrava quasi ovvio che qualche gocciolina di birra cascasse dal boccale alla padella. La ricetta tradizionale, infatti, prevede l’uso esclusivo di birra e non di acqua, sfruttandone in questo modo le bollicine di gas che rendono molto più aerosa e leggera la pastella. Il punto in questione, comunque, non è avvalorare l’inclinazione all’alcolismo che facilmente si appunta al popolo britannico, quanto (finché possibile) giustificarlo. In tempi molto più lontani rispetto ai nostri, rispetto anche alla rivoluzione industriale sopra citata, l’uso di birra e distillati era cento volte più sicuro di quello dell’acqua, dal momento che tali bevande passavano per un qualsiasi processo sterilizzante assolutamente non previsto per l’acqua, considerata come veicolo di malattie –e in tempi di frequenti epidemie, non ci si pensava su due volte a evitarla con cura. A tessere le lodi della birra nelle sue opere, c’è anche un bardo abbastanza noto: vi dice niente il nome William Shakespeare?

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Lontano dai salotti patinati della borghesia e da quelli ancor più infiocchettati di Buckingham Palace, il fish & chips si afferma come il cibo dei nuovi working class heroes: un piatto tanto frugale quanto sostanzioso, economico –e quindi accessibile, unto e saporito, facilmente reperibile. Consumabile, inoltre, in qualsiasi periodo dell’anno: al problema del divieto cristiano di consumare carne ogni venerdì e nel tempo di quaresima, pesce e patatine sembrano la soluzione più ovvia e immediata, che lascia tirare un sospiro di sollievo a tutti gli orfani delle meat pies. Ancora oggi, per parare bene lo stomaco prima del giro dei pub del venerdì sera (si diceva, niente stereotipi), il fish & chips è una delle pietanze più consumate.

Che, infine, sia apprezzato anche oltremanica, non è solo merito dell’espansionismo coloniale britannico. Per una volta, diamo a Cesare quel che è di Cesare: il fish & chips è buono. Punto.

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