Intervista a Luigi Taglienti: cosa voglio dopo il Trussardi

Luigi Taglienti si racconta a Dorina per Honest Cooking: che cosa vuole fare, chef?
Di Dorina Palombi


Sono solita scrivere con un sottofondo musicale, soprattutto dopo un’intervista.
Mi aiuta a mettere in ordine le idee e fissarle lettera dopo lettera.
Mauro Uliassi aveva l’eleganza di Giovanni Allevi, a Moreno Cedroni ha fatto compagnia il pianoforte di Yiruma mentre Errico Recanati veniva rappresentato egregiamente da Elvis.

Ora ascolto Leonard Cohen.
Perché è perfetto per descrivere lo chef di oggi: graffiante, avvolgente, sicuro, disarmante al punto giusto.
E ligure, dannatamente ligure.
Con i liguri ti devi avvicinare con delicatezza, sfiorandoli e ritraendo la mano.
Come con il basilico, che si esprime solo se il tuo tocco gli sfiora l’anima senza scalfirlo, e poi si rilascia, profumando persistentemente tra le dita.
Ti guarda con quegli occhi azzurri in cui ti perdi, come quando hai davanti il mare calmo ma intimamente in subbuglio.
Sa di Liguria, Luigi Taglienti, di un luogo piccolo, da scoprire, con delicatezza e discrezione; un luogo che ha gemme rare che solo chi ha pazienza, e fugge la mondanità, può vivere e raccontare.

Vive di corsa, il giovane chef, come di corsa è stata la sua carriera.
Dalla scuola alberghiera di Finale Ligure, alla gavetta in ristoranti e hotel sempre più prestigiosi, tra Italia e Francia, arrivando alla prima stella Michelin quasi con il fiatone e al grembiule annodato per il ristorante Trussardi, in cui Taglienti si è fatto conoscere e apprezzare dalla clientela milanese per la competenza e la professionalità, per una cucina ricercata nelle tecniche ma ben ancorata alla tradizione italiana, per il lavoro duro e rigoroso che ha fatto in questi due anni meneghini, con l’istinto di un artista che racconta la propria arte ma la razionalità di un manager, che deve gestire una brigata di cucina tutti i giorni.
Perché alla fine, in cucina, sei da solo a raccontarti.
E Luigi Taglienti si è fatto valere. E amare.

Luigi, si è da poco conclusa la tua esperienza con il ristorante Trussardi.
Che succede ora? Quali sono i tuoi progetti?
Dopo i due anni al Trussardi vorrei proseguire la mia carriera in ambito più manageriale, comunicando la gastronomia a 360°.
Non solo attraverso la cucina di un ristorante ma anche con l’esperienza gastronomica che si può vivere in un caffè, piuttosto che in un bistrot. Fornire insomma al cliente, un momento che non si limiti al pranzo o alla cena, ma che si rinnovi a seconda dell’ora del giorno. Un esempio per chiarire il concetto può essere la differenza tra la ristorazione legata a un ristorante e quella legata a un grande hotel, in cui la clientela è abituata a viaggiare, a raffrontarsi con diverse realtà e diversi servizi e il servizio offerto al turista non ha pause ma vive 24 ore su 24.

È un progetto molto tradizionale, classico. Tu ami molto la tradizione, legata però all’innovazione.
Si, amo la tradizione perché è legata alla memoria, al vissuto, a ciò che ti porti dentro e che sa di casa. Poi, la cucina italiana è talmente diversificata e ricca di prodotti di cui andar fieri che non avremo mai ricette uguali, un calderone insomma da cui poter aver sempre stimoli diversi e risultati differenti.
Oltretutto la cucina classica parla un linguaggio ben codificato, che sottolinea la competenza , lo studio e la preparazione di uno chef.

Anche perché la cucina sembra stia andando proprio in quella direzione: un ritorno al classicismo, senza stravolgere prodotti o tecniche.
Il problema è che molti, il classico, non lo conoscono. La mia preparazione è classica, arrivo dalla cucina francese in cui la tradizione è la base da cui poi partire per rinnovare.
Nei grandi hotel in cui ho fatto le mie esperienze, prima ti insegnano a camminare, poi a correre. A oggi, molti sperimentano senza sapere le basi di una cucina tradizionale.
È bello conoscere una cucina che parla di prodotti, svilupparla con un pensiero innovativo, avendo ben chiaro il punto di partenza.
Il mio coniglio alla ligure racconta una storia, una terra e un cuoco che sa bene come muoversi: prendo una ricetta classica, la sviluppo e la porto nella contemporaneità con tecniche nuove che migliorano il prodotto.

Ti vedi un giorno con un ristorante tuo?
Non è il periodo migliore per la ristorazione; la crisi tocca aziende, produttori, che devono tagliare e scremare per andare avanti. È bello pensare a un luogo sicuro in cui comunicare la propria cucina ma l’altro lato della medaglia è il mercato attuale, che non è dei più floridi.
Credo, con le mie scelte, di aver trovato il giusto compromesso tra gestione e creatività senza aver bisogno di un luogo per forza mio.

Passato, presente, futuro. Dove sei ora?
Sono in quel luogo da cui ripartire, senza paura.
Le seggiole comode sono piacevoli, ma impolverano la mente e diventano una catena. Che non vuol dire però fuggire sempre in cerca di stimoli continui.
Il ripartire è un motore nuovo che mantiene vivo il processo mentale, sia mio che delle persone con cui lavoro. Ogni volta che riparto, porto la mia esperienza e la mia conoscenza e la fondo con quella delle persone che lavorano con me.

Cosa pretendi da chi lavora con te. E cosa dai?
Rispetto e trasparenza. E dono la mia cucina, e me stesso. È un processo lungo, con un approccio non semplice, con una fiducia da dimostrare ogni giorno da entrambe le parti. Ma poi, quando il legame si crea, parla da solo.

3 aggettivi per identificare te e i tuoi piatti.
Istintivo, riflessivo, dinamico.

Piatti di cui sei orgoglioso?
Il musetto di vitello, il bianco e nero di seppia, il fegato grasso all’italiana. Ma è la risposta che ti do oggi.
Perché essendo la mia cucina dinamica, si evolve e muta. Come il pensiero, che non va limitato.

Torniamo in Liguria. Il primo piatto che ti ricordi e che ami da impazzire.
Credo una buridda di stoccafisso perché è quella che si trova sempre meno in giro e che io trovo a casa quando torno.
Non è semplice da preparare anche se lo sembra.

Il tuo ricordo fisso nell’anima.
Il profumo del pomodoro acerbo strappato dalla pianta, ancora gonfio di sole.

Quando torni a Savona, qual è la prima cosa che fai?
Torno subito a casa. Ho iniziato a viaggiare molto presto ed è sempre un piacere tornare dove sono nato.

Il profumo che ti ricorda casa?
La lavanda.

Parole e cibo. Sala e cucina. Quali consigli dai?
Devi amare quello che fai, devi conoscere il tuo campo. Proprio come un sommelier assaggia un vino e lo apprezza, chi si avvicina alla sala deve aver voglia di sapere .
Così riesci a vendere una creazione, ricordando cosa hai provato tu in prima persona.

E se trovassi una sala che non riesce a raccontare la tua cucina?
Amplierei la comunicazione con la sala, interagendo ed essendo più presente per poter far vivere al meglio l’esperienza che ci si aspetta quando ci si siede al tavolo.

I 5 sensi. Quale ti piace di più?
L’olfatto, è quello più vicino alla memoria. Amo i profumi.

5 aggettivi sensoriali che ti raccontano.
Sono il profumo delle foglie di limone, di cardamomo. Sono la pelle sotto le dita, inizialmente ruvida e dura ma che poi si lascia andare.
Sono l’acido del limone, sono un suono elettronico anni 80 (come No time no space di Battiato), e sono il sapore di bergamotto sulla lingua.

Che musica ascolti?
La musica italiana d’autore: Battisti, De Andrè, Battiato. E poi mi piace ascoltare, in genere.

E mentre cucini?
Se ho il computer accesso ascolto qualcosa della mia playlist, altrimenti anche il silenzio, accompagnato da un calice di vino.

Quale vino apprezzi?
Quelli naturali, completamente bio che sanno di loro stessi senza nulla aggiunto. Ma anche lo champagne in generale.

Ora aspettiamo che Luigi Taglienti torni a emozionare attraverso i suoi piatti in una nuova ed esclusiva location.
Aspettiamo che finisca questo limbo e lui ritorni all’opera, con l’emozione di ritrovare un caro amico tanto atteso, e potergli dire “Mi sei mancato”.
Perchè Milano, d’inverno, è davvero fredda.
E il sole della Liguria, il cuore, lo scalda sempre.

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