Intervista a Marco Ambrosino

Marco Ambrosino è il capitano della ciurma di pirati del 28 Posti.
È un uomo di mare, e lo si respira appena gli si è accanto. È uno di quegli uomini che lo sa, cosa vuol dire convivere con la salsedine, tra partenze e ritorni. Proprio come fanno le onde.
Certo potremmo raccontarvi delle sue esperienze al Melograno di Ischia e poi quelle più al nord, al Noma di Copenaghen.
Ma queste informazioni potete recuperarle un po’ ovunque.
A noi, piace raccontare i cuochi attraverso le pieghe della giacca da chef, attraverso le dipendenze, gli insegnamenti, forse le debolezze.
E questo è Marco Ambrosino, il nostro Corto Maltese di Procida

1) Marco cosa ti insegnano i ragazzi con cui lavori e le storie che portano con loro?
Intanto nonostante sia una brigata molto piccola, è decisamente varia come età e come provenienza: si parte da Armando con i suoi 22 anni per arrivare a Filippo che ne ha 36. Arrivano dal Piemonte, dall’Abruzzo, dalla Lombardia, io dalla Campania.
C’è uno scambio di storie geografiche, di aspetti. Bisogna essere in grado di adattarsi, nel senso positivo del termine, perché ci sono persone completamente diverse unite da una passione comune che arriva a essere il piatto finito.
Passiamo 16 ore insieme e, da due anni a questa parte, ho visto entrare e uscire dalla cucina tante persone; ora ho trovato una brigata stabile che mi sopporta, che è felice dell’operato, lo apprezza e sposta la mia idea di lavoro.
Sono qui non perché devono ma perché fa loro piacere e riusciamo a incanalare i nostri pensieri nella creazione di una portata. È come se avessimo imparato a parlare la stessa lingua.

2) Quali sono le storie che i tuoi piatti hanno più voglia di raccontare?
Inevitabilmente sono storie legate al mare, anche quando trattano prodotti che vengono dalla terra. Per condizione geografica, per un legame genetico.
Arrivo da Procida e lì non c’è punto da cui non si veda il mare. Ti svegli la mattina, controlli il vento anche se non hai da fare, ma sai già come andrà la giornata, foss’anche per la certezza che ti asciugherà la biancheria.
E te lo porti dentro, il mare. Siamo un popolo di viaggiatori.
Da Procida ti devi spostare e a Procida torni con un bagaglio di storie da raccontare inevitabile. Ed eccole quindi, nei miei piatti.
Perché ho capito che è questo che voglio raccontare, che è questo che contemporaneamente parla di me e prendere consapevolezza di questa cosa è stato un passo fondamentale nella mia vita professionale.

3) E’ questo che ti sta insegnando la cucina?
Direi di sì. Sto imparando a conoscermi sempre di più, a vedere prospettive differenti, focalizzandomi sulle priorità. Da quando è nato mio figlio ho cercato di andare a fondo nelle cose davvero importanti, eliminando il superfluo.
Lo stesso in cucina.
La scelta di togliere è proprio frutto di questo passaggio, che ora è naturale, quasi spontaneo. E come individuo, come professionista, ti senti più forte perché capisci come mai, prima, questo step non era stato soddisfacente.

4) Qual è il piatto che maggiormente ti rappresenta?
Senza dubbio la Chiajozza. È diventato il mio marchio di fabbrica, un piatto molto riconoscibile. È il quartiere in cui sono nato e cresciuto e, di conseguenza quello che meglio mi racconta, quello che ha un ricordo in ogni singolo dettaglio.

5) Qual è la differenza tra i mari del Sud, in cui sei cresciuto, e quelli del Nord, in cui ti sei spostato?
Il mare al nord è un antagonista, è visto come un qualcosa da cui difendersi. Una volta a Copenaghen il pescatore che si occupatava dei ricci di mare ci ha chiesto di tenere sulle labbra per 30 secondi un cubetto di ghiaccio. Era impossibile. Poi ci ha detto che lui stava sott’acqua per due minuti, esattamente con quella sensazione.
A Procida invece i pescatori sono in mare sempre, che lavorino o meno. Con tutto quello che ti toglie, non puoi comunque farne a meno. È un compagno di vita.

6) Un mare che vorresti vedere e scoprire?
L’Asia, in generale, vorrei poterla conoscere meglio. Al momento è oggetto di studio e, soprattutto, di immaginazione. Di sicuro sarà una delle prossime tappe, quando mio figlio sarà un po’ più grande.

7) Cosa vorresti insegnare a tuo figlio?
Vorrei insegnarli “il sale”. Inevitabilmente è qualcosa che ti lega, per chi come me è nato in acqua, ed è un concetto romantico nell’approcciarsi alla vita: è la continua ricerca, la curiosità, la scoperta, il sapore della vita stessa. È un valore aggiunto che vorrei mettere sulla sua strada, ma avrà poi la libertà sempre di scegliere.

8) Cosa ti ha insegnato, a proposito di sapori, la cucina della tua famiglia?
Sono stato un bambino molto fortunato perché ho avuto fin da subito l’approccio giusto al mangiar bene.
Dalle elementari, quando nonna per sostituire la mensa mi portava panieri carichi di bontà, alla possibilità donata dalla natura stessa di scoprire il vero sapore del cibo, perché era lì, a portata di mano. Un legame lo crei per forza, e sarebbe bello tramandare questo dono.

9) Scegli tre ingredienti che ti identificano?
Di primo impatto gli agrumi, senza dubbio. Ma anche i carciofi e i pomodori. Questo perché nel mio quartiere a Procida, alla Chiajolella, c’erano dei campi piccoli, a 50 centimetri sotto il livello del mare, carichi di questi ortaggi pieni di sapore e gusto, genuini, sinceri.

10) Fai un percorso tra passato, presente e futuro. Dove sta andando la tua cucina?
Quando ho iniziato a guidare la mia brigata di cucina, la mia idea era focalizzata su un obiettivo ben visibile, quasi fossi concentrato sull’arrivo. Ora ho imparato a godermi il viaggio in ogni sua tappa, dalla selezione delle verdure in cascina al piatto finito.
Ho preso coscienza del fatto che il piacere gustativo che ha il commensale deve contenere, come ingrediente segreto, la sostenibilità e l’armonia. Deve essere appagato dal gusto e dalla consapevolezza che tale sapore è in simbiosi con il luogo in cui vive, e soprattutto lo rispetta.

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