La forma è quella di una polpetta, ma gusto e preparazione sono quelli di un insaccato senza l’uso del budello davvero speciale, a base di capra o pecora. Mattea ci presenta Sua Maestà la Pitina.
Di Mattea Guantieri

“Il riposo della polpetta è come il riposo dei pensieri: se aspetti un po’, vengono meglio”. Ho rispolverato un piccolo e godibilissimo libro dello storico Massimo Montanari, da cui ho tratto queste poche righe, quando, per caso, mi sono imbattuta nell’assaggio di un tesoro notevolissimo della storia e della memoria pastorale delle valli Cellina e Tramontana nella fascia pedemontana a nord di Pordenone: la Pitina, uno dei rari salami non insaccati, fatta a forma di polpetta e ricoperta di farina di polenta: la sua origine sembra legata al fatto che era vietato al popolo cacciare e nutrirsi degli animali, considerati pertinenza delle terre dei signori.

Così quando la fortuna faceva incappare il contadino in una bestia morente, ecco che la sua carne veniva insaporita, fatta in forma di piccole polpette e nascosta nel mais macinato. Per scoprirla oggi, bisogna cercare i pochissimi produttori di questo presidio Slow Food, come Noè Antonini ad esempio, che a Maniago, oltre a regalare alla popolazione questa prelibatezza per circa 3/5mila pezzi l’anno, è il custode dell’antenato del salame ungherese, il salame di Barba Nane. O come Filippo Bier che nella sua macelleria a Meduno produce un’ altrettanto autentica Pitina, intensa e morbida al palato.

Fatta con carne di capra, di pecora, di selvaggina (non cinghiale, perché il cinghiale non è storicamente di queste parti) a cui si aggiunge della pancetta di suino fresca, aglio, la Pitina ha proprio la forma della classica piccola polpetta. Viene fatta passare nella farina di mais e poi fatta asciugare. Una volta i contadini non avevano certo le budella per fare insaccati, da qui l’idea della pitina che, una volta fatta, veniva appoggiata sulla cappa del camino ad affumicare. Oggi si usa legno non resinoso: faggio, carpine nocciolo o ciliegio, il risultato è uno stratosferico insaccato, composto esclusivamente da carni di capra-pecora o selvaggina ungulata a stagione con una piccola aggiunta di pancetta suina. Diverse le varianti: in Val Tramontina, zona di produzione della pitina, si univa anche rosmarino selvatico. In Val Cellina, area di produzione della petuccia, finocchio selvatico e bacche di ginepro. La peta, versione “magnum” della pitina, era tipica di Andreis, in Val Cellina: più grande della pitina e della petuccia, rotonda, leggermente schiacciata, poteva pesare anche un chilo. Con la carne macinata si formavano piccole polpette, si passavano nella farina di mais e si facevano affumicare sulla mensola del fogher. La pitina, col passar del tempo, si asciugava e per consumarla occorreva ammorbidirla nel brodo di polenta.

Il metodo di conservazione, tramandato sembra dai Celti, si basa su una prima asciugatura dell’impasto carneo con farina di mais dopo avergli dato una forma semisferica (polpetta), successivamente lo si portava per ulteriore asciugatura sulla cappa del camino dove naturalmente prendeva anche una leggera affumicatura che consolidava una crosticina di protezione formata da mais e calore per inibire le muffe. Va da sé che il costo di questo salume davvero di nicchia deriva dalla lunga e minuziosa mondatura delle carni di questi animali (il loro grasso ha odore nauseante) e dal forte calo peso in stagionatura, il risultato però, è inutile dirlo, ne compensa il costo.