Quello di Giulia è uno sguardo vergine sull’evento enogastronomico dell’anno. Il Salone del Gusto e Terra Madre visto da chi ci è andato per la prima volta.
Di Giulia Robert
Il fine settimana torinese appena trascorso è stato segnato da un grande e duplice evento dedicato al mondo del cibo e al cibo del mondo, il Salone del Gusto e Terra Madre, un evento amato, odiato, discusso, comunicato, messo in dubbio, contestato e affollato.
Potrei trovare almeno altri cinquanta aggettivi da utilizzare per descrivere questo evento, probabilmente non basterebbero e sarebbero allo stesso tempo tutti giusti e tutti sbagliati.
Lo ammetto, questo è il mio primo Salone del Gusto, e sarò magari tacciata di guardarlo con gli occhi della prima volta, ma a me questo salone è piaciuto, perché non so se si possa affermare che racchiuda “tutto” del mondo del cibo, ma di sicuro ne racchiude una gran parte.
Vagando senza meta (così mi sono ripromessa di visitare il salone, vagando, guidata dall’istinto e non dalla mappa) fra i suoi padiglioni, nella piazza della pizza e del cibo di strada e per il meraviglioso padiglione dedicato a Terra Madre, mi sono imbattuta prima tutto in persone.
Persone che sanno spiegare e mostrare i piatti della tradizione (vedete quei begli omini che preparano la focaccia di Recco qui sotto?), persone che stravolgono tradizioni trasformandole in qualcosa di nuovo (sempre qui sotto vedete la preparazione di un cous cous di spaghetti condito con sugo di pomodoro e mozzarella di bufala campana), persone che sanno spillare una birra alla vecchia maniera, ma soprattutto persone ansiose di trasmettere l’unicità dei propri prodotti (nonché, ovviamente, persone ansiose di ricevere queste perle di cultura gastronomica).
Mi sono imbattuta poi (il poi non è dovuto ad una scala di importanza, ma solo alla mia logica: prima viene chi crea e poi ciò che è creato) in miriadi di prodotti, alcuni certamente già noti al grande pubblico, altri più di nicchia, altri sentiti nominare ed assaggiati per la prima volta (per quanto mi riguarda, una di queste scoperte è stata la sopprèssa del Palladio, vicentina, chiamata così perché all’origine stagionata sotto le ville palladiana.. che dire, non finirò mai di imparare). Per quanto mi riguarda, ho dato precedenza alla scoperta di formaggi (mio tallone d’Achille) e birre (il Salone era un vero tripudio di birrifici artigianali), tanto da rischiare un eccesso di colesterolo o un tasso alcolemico un filino troppo alto, ma non potevo esimermi, e vorrà dire che rimanderò di un pochino i prossimi esami del sangue.
Ho quindi anestetizzato le mie papille gustative a colpi di ‘nduja calabrese e di piccantissimo capocollo pugliese, le ho cullate con una zuppa di legumi e farro della Garfagnana e con la tonnetta, e le ho fatte poi sentire a casa con i formaggi piemontesi e i plin al burro e salvia.
Mi sono incantata davanti ai grappoli di pomodorini e a chi li legava con sapiente maestria.
Davanti a cipolle grandi come la mia testa o a cestini colmi di oro verde…
E mi sono sorpresa ed emozionata per aver potuto finalmente assaggiare la mitica (e favolosa, ora lo posso dire) pizza di Bonci senza andare a Roma (anche se ci tornerei domani stesso, nella Città Eterna).
Ci sarebbero tante, forse troppe cose ancora da dire sul Salone, tante impressioni, tanti gusti e suggestioni, ma credo di non ricordare nemmeno tutte le meraviglie che mi sono passate davanti agli occhi e sulla lingua: ero talmente impegnata ad assaggiare, chiedere e guardare da dimenticare anche di scattare qualche foto in più. Forse però il Salone è un’esperienza che va più vissuta ed osservata coi propri occhi, fosse pure per criticarla o disprezzarla, piuttosto vista attraverso qualche statica fotografia.
Un ultimo commento, che è semplicemente un pensiero che mi ha accompagnato durante tutta la visita al Salone: non vi so dire quanto mi abbia reso contenta vedere una vera e propria fiumana affollare il Salone e il padiglione di Terra Madre, persone che gustavano, annusavano, mangiavano con gli occhi, chiedevano ed ascoltavano, bambini estasiati davanti all’orto del mondo o con in mano una panella o un arancino.
Vedere un numero esorbitante di persone disposte a pagare un biglietto non propriamente economico per osservare, conoscere e, perché no, assaggiare, le eccellenze del territorio italiano e del mondo, mi ha fatto ben sperare che la cultura del cibo stia finalmente conquistando una sempre più vasta fetta di persone, forse comprendendo che l’amore per il buon cibo è uno dei primi modi per amare la terra, il prossimo e noi stessi.