Blue ci racconta la cucina di Anthony Genovese e del suo ristorante romano, Il Pagliaccio. Sapori e profumi che sono memoria e materiale da raccontare.
Di Blue Gavioli

Anthony Genovese e la sua squadra
Henri Bergson sosteneva che “Noi siamo il nostro passato” e che questo non può che essere recuperato se non con la memoria. La memoria ci permette di riprodurre un’esperienza passata rendendola nuovamente attuale, pur coscienti del fatto che questa istanza ha racchiusa in sé una lontananza spaziale e temporale imprecisata. Molte sono le cose che possono farci fare un salto all’indietro e produrre un ricordo. La più immediata tra le tante è sicuramente l’ausilio della cucina. La cucina ha molteplici componenti che stuzzicano un’esperienza remota; il sapore di un biscotto e qui è inevitabile citare Proust con la sua Madelaine e la “Ricerca del tempo Perduto”, che se pur perduto viene catturato dal cervello e liberato quando meno ce lo aspettiamo, l’odore della piadina scaldata sulla stufa e qui come non pensare alla ricerca dell’odore perfetto de “Il profumo” di Suskind che vede il povero ma spietato Grenouille combattere tutta la vita per trovare il profumo perfetto (che riscontrerà solo sulla pelle di una vergine con i capelli rossi), o un rumore che a me fa tanto pensare al Ristorante dell’amore ritrovato di Ito Agawa dove dalla cucina arrivano rimbombi di tegami, fruscii di mestoli e chiacchere tra piatti che compongono una dolce sinfonia che fa innamorare i commensali e cambia la loro esistenza rendendola più felice.
La cucina rende migliore ogni cosa, ha la capacità di salvare l’anima dai tormenti, acquietare i bollenti spiriti o talvolta scaldarli e trovar pace dove prima c’era guerra. La cucina libera la mente, riempie la pancia e guarisce il cuore, è l’unica, (per me) insieme all’arte, a recuperare un ricordo chiuso in un cassetto, è lei che sprigionando la sua potenza è capace di rendere presente ciò che è passato e passato ciò che prima sembrava il futuro.
Ma il cibo è anche cultura, cosi come scrive Massimo Montanari, una cultura che oltre a parlarci della storia dell’umanità, ci racconta di desideri, rituali, modus vivendi, creatività e gusto attraverso codici e segni comunicativi che sfruttano la parola per tramandare un sapere che poi si mette in atto in cucina. È il codice del sapore quello che sembra inscriversi nel DNA di alcuni chef ed è sicuramente il caso di Anthony Genovese chef del Ristorante il Pagliaccio. Genovese utilizza il cibo per veicolare emozioni, sensazioni, affettuosità e carezze che gli arrivano da lontano, dalle sue origini calabresi, dal nonno al quale ha dedicato anche una portata (Ricordando nonno Fosso: ziti e stoccafisso, olio di ‘nduja e cavolfiore) in cui si evince il vero significato di innovazione in cucina e in cui risuona l’autobiografia come punto di partenza del piatto. Una virata di sapori perfettamente allineati in cui il cambio di rotta si infrange nel vento per incontrare lo stoccafisso croccante e come il vento gonfia la vela così la crema di ‘nduja conferisce la direzione finale al piatto che accarezza il velluto del cavolfiore riportandoci a terra. In questo piatto, che mi ricorda tanto il realismo sociale di Giuseppe Migneco (Pescatori 55’-57’) ma anche alcuni lavori di Jannis Kounellis, Genovese, porta il mare in tavola, la percezione è quella di avvistare un porto sicuro dove approdare, finalmente, dopo la tempesta. Il cullare di emotività dati del cibo della memoria, coincidono esattamente con il cibo della memoria dello chef che comunica a chi mangia un preciso attimo della sua vita e qui tiro in ballo il concetto per cui uno chef diventa inevitabilmente una parte di ogni suo commensale, in quanto, quando assaggiamo un suo piatto noi non gustiamo solo la materia palpabile e visibile che ci troviamo di fronte ma veniamo a contatto con il suo vissuto.

Ricordando nonno Fosso: ziti e stoccafisso, olio di ‘nduja e cavolfiore
Al Pagliaccio s’inizia con un buon calice di Krug Grand Cuvée (che sorseggio come se fosse l’ultimo della mia vita) accompagnato da Cips di riso croccanti e un arancino con gamberi e agrumi, un aperitivo perfetto. La carta dei vini vanta due bollicine straordinarie, un Krug 1998, Vintage (costo 500€) e un Thienot “La Vigne aux Gamins 1998 (340€, il mio preferito).
Da qui in poi è tutto un viaggio tra sapori mediterranei ammorbiditi dall’esperienza francese con quel tocco di Oriente che a me piace tanto e che fa si che la cucina di Anthony Genovese non sia mai banale e mai scontata.
Gamberi rossi, carota, acqua di riso venere, frutto della passione, la rievocazione della cucina Indù risale le scale della mia memoria, sapore di Templi, di spezie e d’Oriente. La freschezza del gambero che si amalgama con la carota, il riso venere scrocchia una dolce musica sotto ai denti rilasciando una nota amara che anticipa la strada al frutto della passione, all’asparago e all’invasione solenne del cumino. Una partenza senza parole.

Granchio e calamaro, thè rosso al melograno.
Merluzzo leggermente affumicato, carciofo e topinambur. Un piatto decisamente perfetto, acuto direi. Non lascia certo spazio all’incertezza.
Finisco con la carta dei caffè, 8 tipi diversi provenienti da diversi paesi e con diverse miscele, la mia preferita il Jamaica Blue Mountain, un caffè coltivato nella regione delle montagne azzurre, in cui ritrovo sentori di vaniglia, tabacco e burro fuso. Decisamente molto forte, paragonabile a un drawing nero su carta di Richard Serra (out-of-round X, 1999)

Veduta del Ristorante il Pagliaccio
Genovese è uno chef con carattere, alle volte sembrerebbe persino un po’ snob, ma appena varcata la soglia della cavità orale tutto si ammorbidisce allungandosi in un tenero abbraccio, tipico del Sud, quel Sud Italia che vive sempre con e per il sole.