Maria Alessandra si schiera con Singha Beer, e ci spiega le ragioni del suo successo.
Di Maria Alessandra Tioli
La prima cosa che mi è mancata nei miei soggiorni tailandesi non è tanto il cibo di casa, quello che scatena bestiali nostalgie alla maggior parte degli italiani in vacanza all’estero, quanto il vino che accompagna il pasto. Non che il vino non si trovi, almeno non ovunque, sicuramente non nei piccoli ristoranti sulle spiagge, dove tutti bevono birra, ma la birra non mi piace, neanche abbinata alla pizza, nelle uscite tra universitari. E allora comincio a provare il resto: pasteggio a Mê Kông, un thai whiskey a base di riso, soffocandolo di ghiaccio, annaffiandolo di acqua, alla prima sbronza passo al thè, poi ai succhi di frutta, col buonumore in caduta libera, mi risollevo appena in tempo e…. ritorno alla birra.
Dopo tante permanenze sono arrivata alla conclusione che comunque la birra, soprattutto quella di produzione locale, è il migliore accompagnamento ai cibi thai, valorizza le spezie, esalta il piccante, è buonissima abbinata ai piatti agrodolci, insomma è la bevanda perfetta che rimanendo in sordina ti fa apprezzare quello che mangi. Questo mio avvicinamento alle birre ha fatto sì che cominciassi ad osservarle con occhio più interessato fino a chiedermi perché le principali quattro birre nazionali hanno nomi o loghi che fanno riferimento a potenti animali selvaggi. Le risposte mi sono arrivate da più direzioni, più o meno credibili e fantasiose anche in base al numero di birre bevute e all’alzarsi del tasso alcolico.
Oltre le due piccolissime aziende produttrici Tiger e Leo che si dividono una inesistente fetta del mercato, svettano i due colossi Singha (pronunciare sing-ha omettendo ha) e Chang che lottano strenuamente rubandosi a vicenda tutto il resto del mercato nazionale. Ed è una lotta vera e propria tra il mitico leone di fuoco che dal 1933 è il marchio della Singha e i tradizionali, ma graficamente un po’ fermi, elefanti bianchi della Chang. E questo contendersi delle due potenze alcoliche ha fatto si che anche la rispettiva clientela si dividesse, selezionandosi, creando una vera e propria tifoseria. La birra Chang, anche se è entrata nel mercato thai quando la Singha era già un colosso da molti decenni, si è sbranata fette di mercato puntando sul basso costo e allargando la propria clientela in una fascia socialmente medio bassa. La Singha invece, ha tenuto duro, ha valorizzato l’aspetto tradizionale dell’azienda, puntando però ad una fetta di mercato più evoluta, moderna, studiando con attenzione i mercati oltre frontiera. Grandi investimenti di immagine, un fashion look che si rinnova e si adatta al pubblico delle discoteche, mecenate di giovani artisti in tutto il mondo, da Tokio a Miami. E’ presente sulle passerelle di moda, dagli accessori ai tattoo dei modelli, primadonna assoluta nei fullmoonparty a London.
Forse si è capito che, personalmente, faccio parte della tifoseria della Singha, per l’approccio che ha con il mio palato, e per gli aromi che lascia quando se ne è andata. Mi piace la bottiglia sul tavolo, nel pomeriggio arroventato, con l’imperlatura che deforma il leone di fiamme, riducendolo e duplicandolo in migliaia di esemplari. Mi piace vederla in mano alla gente del posto, nei cesti di chi fa la spesa al mercato, portata alla bocca direttamente dalla bottiglia e perché no anche nelle sacre mani di un monaco buddista.
Mi piace la Sing-ha! E birra sia!