Ultimo Tango a Parigi: il rimedio è il burro, come in questa stagione. Ovviamente, in questo caso, nel senso più ortodosso …
Di Filippo Lagrasta
Succede ogni volta. Quando il mondo pare finalmente acquietarsi, placato dall’inganno di uno sconfinato autunno, l’arrivo della nuova stagione sorprende le piccole certezze su cui l’equilibrio si regge, riannodando i fili già disordinati della vita di tutti i giorni.
Come ogni altra mattina, esci di casa in fretta, i soliti pensieri che mulinano nella testa, gesti che si posano su altri gesti, senza farci caso, come d’abitudine. Soltanto, mentre scendi nel gorgo di voci e di volti che ti fanno scorta fino al lavoro, un giorno dopo l’altro, un brivido ti risale la schiena, ti scuote d’improvviso dal tuo solito tepore sonnolento.
Allora alzi gli occhi, come a chiedere cosa o chi, e ti accorgi che nella notte qualcosa è cambiato.
Gli alberi si sono spogliati delle ultime foglie che avevano resistito tenaci alle prime piogge e che ora si spargono a terra, a mucchi, e dietro ai rami nudi riappaiono le facciate dei palazzi e i contorni scuri delle case che il verde aveva sommerso durante l’estate. Come una lastra di mercurio, il cielo si riflette sulle finestre della città che torna a specchiarsi nella sua fisionomia di sempre, austera e severa.
Così, il gelare dell’inverno ti smarrisce e ti fa randagio, solo. La stessa solitudine pastosa, satura, che veste i due protagonisti di una pellicola leggendaria: Ultimo tango a Parigi.
Al suo debutto, nel 1972, destò enorme scandalo e provocò l’intervento animoso della censura che ne impose il ritiro dalle sale e l’integrale distruzione, decretando la condanna per oscenità del regista Bernardo Bertolucci a due mesi di reclusione e alla privazione dei diritti civili per cinque anni.
Naturalmente, il successo di pubblico fu inarrestabile e la stampa – soprattutto quella statunitense e francese – lo impose come un vero capolavoro.
Merito soprattutto del suo romanticismo disperato, disilluso, e della cruda sensualità che trovano nel corpo sbandato di Marlon Brando un’incarnazione dolente e perfetta: un canto del cigno, il suo, che richiamerà donne di ogni età ad assediare, durante le riprese, il palazzo nel quale si girano gli incontri tra i due amanti. Tra queste, imprevedibilmente, anche Claudia Cardinale: incontrandolo, in un intervallo di lavorazione del film, non troverà nemmeno il coraggio per rivolgergli la parola, sopraffatta e intimidita dalla sua presenza, virile quanto un dio pagano.

Per la protagonista femminile, la scelta del regista era caduta inizialmente sul nome più famoso del cinema francese, Catherine Deneuve, reduce dalla masochistica prova de La Cagna di Marco Ferreri, ma l’idea fu abbandonata poiché l’attrice aspettava una bambina ed era già al quinto mese di gravidanza. Bertolucci si risolse allora a puntare su un volto meno conosciuto, offrendo alla ventenne Maria Schneider l’occasione della consacrazione internazionale, il ruolo della vita.
Ancora oggi, a distanza di quarant’anni e nonostante molti dei tabù che dovette fronteggiare all’epoca si siano definitivamente eclissati, Ultimo tango a Parigi rimane l’emblema di un cinema trasgressivo e ribelle, struggente nella sua ricerca di riscatto, di un nuovo inizio. Indimenticabile, almeno quanto la celeberrima scena dell’amplesso aiutato dal burro.
Ecco, al principio dell’inverno, quando riaffiora come un alone un’imprecisa nostalgia, il rimedio è il burro. Naturalmente, nel suo utilizzo più ortodosso. Semplicemente, spalmato su una fetta di pane casareccio caldo e cosparso di una manciata di zucchero: al primo imbrunire, mentre le luci cadono e si spengono insieme alle ultime voci, ovunque voi siate, vi sorprenderà il calore di un sapore antico e genuino, e sarete nuovamente coccolati e al sicuro, come a casa.