Vino d’anfora: grezzo, primitivo, come lo bevevano gli antichi greci e romani: torna oggi di moda il vino fermentato nelle anfore d’argilla.
Di Alessandra Storti

Tra i cultori del vino più raffinati, quelli alla costante ricerca di nuove suggestioni tanto sensoriali quanto culturali, spopola recentemente una nuova moda, una tendenza che affonda le sue radici in un’epoca lontana iniziata ben 10.000 anni fa.
E’ la passione per il vino di un tempo, proprio così come lo facevano i nostri antenati greci e romani, lasciato fermentare nei dolia, gli antichi contenitori d’argilla.
Un vino grezzo, antico, poco raffinato, che ci riporta alle nostre origini e parla l’arcaico e ancestrale linguaggio della nostra Madre Terra.
A raccontarci la storia di questo vino è Attilio Scienza, professore di Viticoltura ed Enologia all’Università di Milano, autore di un prezioso documentario ambientato in Georgia, una terra dove ancora oggi, come migliaia di anni fa, il vino si produce solo ed esclusivamente in contenitori d’argilla.
Una pratica che oggi viene adoperata, in maniera nettamente minoritaria, anche in altri paesi come l’Italia, la Grecia e la Spagna.
– Professor Scienza, cosa può dirci circa la produzione del vino nei contenitori d’argilla?
Quella del vino è una storia antichissima, lunga oltre 10.000 anni di storia. L’uso dei contenitori d’argilla per la conservazione (i dolia, contenitori di forma globulare con una capacità di 5 ettolitri utilizzati dagli antichi per la conservazione di liquidi) e il trasporto (le vere proprie anfore, più piccole nelle dimensioni) è la tecnica più antica di produzione di questa bevanda.
Le prime tracce risalgono a 6000 anni prima della nascita di Cristo in una terra che corrisponde all’odierno Iraq orientale, dove sono stati ritrovati i cocci di un’anfora rotta contenente al suo interno residui di acido tartarico, chiaro e inequivocabili indizio che quell’anfora, in origine, contenesse del vino.
Nell’Occidente antico l’impiego dell’argilla per la conservazione del vino era proprio dei Greci e dei Romani.
Le popolazioni germaniche (Celti e Galli), che non disponevano di un’argilla adatta allo scopo, adoperavano invece il legno (principalmente quello di larice) presente in grandi quantità sui propri territori.
Il predominio dell’argilla in epoca antica è legata all’espansione dell’impero romano e, conseguentemente, del commercio latino.
Grazie ai numerosi ritrovamenti di anfore (molte delle quali, centinaia e centinaia, sono state recuperate in mare, conseguenza di naufragi) è possibile realizzare una vera e propria mappatura del vino in epoca antica.
In base alla zona di provenienza ogni anfora presenta infatti delle caratteristiche particolari che la differenziano da tutte le altre.
Le incisioni presenti sulla superficie indicano invece il commerciante acquirente e la località di destinazione, svolgendo quasi la funzione di una moderna bolla di accompagnamento.

Il passaggio dall’argilla al legno avviene in Europa contestualmente alla decadenza e alla dissoluzione dell’impero quando, con l’interruzione dei commerci, i vini non viaggiano più per chilometri e chilometri da un’estremità all’altra del mondo latino e la produzione del vino assume un carattere prevalentemente locale.
Tra la fine del ‘800 e l’inizio del ‘900 si verifica poi un altro importante cambiamento con l’introduzione delle vasche di cemento armato fino ad arrivare poi alle odierne vasche in acciaio.
– Quali sono le qualità di un vino nato in contenitori d’argilla? Quali le differenze rispetto ai vini moderni?
Per rispondere a questa domanda è necessaria una premessa.
In primo luogo bisogna aver chiare le molte differenze nell’impiego antico dei contenitori d’argilla. In passato esistevano diverse tipologie di anfore, alcune vetrificate, impermeabili e in grado di isolare il contenuto rispetto alle influenze esterne, altre rivestite con cera d’api, impermeabili sia all’esterno che all’interno.
Inoltre, in alcune regioni le anfore venivano interrate (un uso che favorisce di per sé la coibentazione termica) in altre regioni invece le anfore venivano conservate in ambienti dalla temperatura costante.
Quando poi si parla di vino d’anfora, ciò che lo caratterizza rispetto ai vini attuali non è soltanto un differente contenitore adoperato per la fermentazione e il trasporto. Diversa rispetto ad oggi è infatti l’intera pratica enologica. Rispetto ai moderni viticoltori, gli antichi facevano, ad esempio, un uso minore della solforosa e impiegavano lieviti meno selezionati: il risultato era un vino che potremmo definire più primitivo.
In generale, possiamo dire che un vino d’anfora presenta un colore più carico, descrittori maggiormente marcati, un grado di ossidazione maggiore e dei caratteristici aromi tannici e mielosi. Si tratta sostanzialmente di un vino del passato, decisamente grezzo.
– Esistono dei vitigni che maggiormente si prestano alla fermentazione nelle anfore?
Sicuramente quelli caucasici, da migliaia di anni selezionati per questo scopo. In generale si tratta di vini bianchi con polifenoli poco ossidabili, in grado, anche se messi a fermentare con tutte le bucce, di mantenere un colore meno carico, insomma, in una parola, vini più neutri.
– E per quanto riguarda i vini italiani?
Nel nostro paese vengono adoperati, per citarne alcuni, il Trappato, un vino rosso siciliano oppure, per quanto riguarda i bianchi, la Ribolla friulana o la Nosiola del Trentino.

Josko Gravner – pioniere del vino d’anfora
– A suo avviso, l’anfora rappresenta e racchiude in sé anche delle valenze culturali e simboliche. Ce ne parla?
Quella di cui abbiamo parlato è, sicuramente, una tecnica di produzione del vino che esprime il bisogno dell’uomo contemporaneo di un rapporto più stretto con la natura, l’anfora così come la terra dove viene interrata racchiude in sé l’archetipo junghiano della Grande Madre nel rappresentare questa sorta di grande caverna o utero che accoglie la materia e le dà vita.
– Chi sono oggi i viticoltori che adoperano contenitori d’argilla per i propri vini e perché hanno scelto di recuperare questa pratica?
I viticoltori che oggi praticano questo tipo di agricoltura sono davvero pochi, le quantità prodotte sono infinitesimali se rapportate all’intera produzione.
I motivi alla base di questa scelta sono essenzialmente due: il primo, per così dire profano, è quello di proporsi sul mercato con un prodotto diverso che può puntare a una ben precisa nicchia di consumatori, il secondo nasce da esigenze squisitamente culturali e simboliche. Dietro la scelta di quelli che possiamo definire dei veri e propri archeologi del vino, c’è infatti il rifiuto della modernità e dell’innovazione tecnologica e il desiderio di recuperare gli antichi valori del passato.
Il mercato a cui si rivolgono è composto da consumatori di una certa cultura oltre che disponibilità economica, in cerca di un prodotto non standardizzato e in grado di offrire delle sensazioni diverse che in questo caso, lo ripeto, non sono soltanto di natura sensoriale ma nascono da un retroterra simbolico.
La riscoperta dei vini del passato si inserisce, del resto, in una tendenza attuale di forte sperimentazione in campo enologico da cui nascono fenomeni altrettanto di nicchia come i vini biologici e biodinamici.
Per quanto riguarda i canali distribuzione, sono diversi da quelli tradizionali. La vendita dei non avviene attraverso le grandi catene commerciali né tanto meno le enoteche, ma si basa piuttosto su un mercato di prossimità e sul rapporto diretto con il consumatore.